“Se mi faccio comprare, non sono più libera, e non potrò più studiare: è così che funziona una mente libera” (Ipazia, in “Ipazia Vita e sogni di una scienziata del IV secolo”). Ipazia, sublime, eccelsa, nome probabilmente profetico impostole dal padre, è il simbolo della prima donna di scienza, bellissima, colta e intelligente. Filosofa e scienziata, scopritrice e studiosa, Ipazia riuscì a ottenere un forte peso politico e culturale in un’epoca in cui le donne non avevano la possibilità di distinguersi nella scienza. Tutta la società alessandrina, istruita e raffinata, era attratta e le prestava unanime ammirazione e considerazione. Né Ipazia si vergognava di apparire in un convegno solo maschile, tanta era la venerazione e il rispetto che la sua persona emanava, per dignità e intelligenza. Naturalmente una creatura così eccelsa generò invidie feroci, paure ingiustificate, gelosie insanabili. La sua morte fu atroce, ma lei ha rappresentato per secoli e continua a rappresentare il simbolo della donna scienziata, l’icona del sacrificio femminile che riesce ad avere levatura politica e peso culturale, in un’epoca in cui le donne erano destinate solo alla procreazione e al focolare domestico.
Passiamo a una storia più recente. Nel 1963 a Watson e Crick fu consegnato il Premio Nobel per la scoperta della struttura a doppia elica del DNA. Oggi vocaboli come gene, genoma, codice genetico e acidi nucleici, sono entrati nell’uso comune o comunque in ogni libro di biologia dei licei, ma negli anni cinquanta la struttura degli acidi nucleici era ancora sconosciuta.
Ebbene, Rosalind Franklin, ricercatrice inglese, morta prematuramente per un cancro contratto per gli studi che svolgeva, utilizzando senza precauzioni elementi radioattivi, riuscì a fotografare (la foto è passata alla storia come la numero 51) ai raggi x la struttura del DNA, che portò poi alla deduzione della forma tridimensionale a scala a chiocciola. A Watson e Crick fu consegnata, a sua insaputa, questa foto che permise loro di costruire il famoso modellino a doppia elica e quindi di ottenere il Nobel. Intanto la Franklin era morta a soli 37 anni, ma i suoi colleghi, nel momento della consegna del premio non nominarono la sfortunata collega che, con la famosa n. 51 aveva avuto la illuminante intuizione della struttura tridimensionale del DNA. Anche Rosalind Franklin visse in un ambiente ostile alle donne e, nonostante la sua indiscutibile intelligenza, faticò molto per imporsi nel campo delle scienze e, come per Ipazia, giocò a suo sfavore un carattere indipendente, la sua posizione sociale e religiosa. Anche la Franklin è diventata un’icona del movimento femminista scientifico.
Com’è la situazione odierna? Da qualche anno si è registrato il sorpasso (e non solo nel numero) delle donne nelle università rispetto ai maschi: maggiore dedizione e senso del sacrificio, maggiore impegno, ottimi risultati, lauree brillanti e dottorati eccellenti. Il fenomeno si inverte quando si esamina il mondo del lavoro; molte si sono perse lungo la strada. Sicuramente in alcuni casi si tratta di una scelta, libera o obbligata, ma in tanti altri casi viene da pensare a una discriminazione ancora in atto, soprattutto nel campo dell’economia, dell’imprenditoria e della politica e anche nel campo della scienza. Gli ultimi dati sulle carriere delle donne in campo scientifico lo confermano. Il percorso delle carriere delle donne è ancora una “conduttura che perde”: più si sale nel livelli di carriera più le donne tendono a diminuire, fino a scomparire quasi del tutto dagli organi decisionali della ricerca scientifica. Esistono degli ostacoli esterni e interni simili a quelli di una qualsiasi altra organizzazione del lavoro. Le regole implicite, i giochi di potere, le culture organizzative tendono a escludere le donne sulle quali, non dimentichiamo, ricade molto anche del lavoro familiare. (Vedi Cristina Mangia su Hevelius). Come testimoniavano il rapporto del MIT o il lavoro delle svedesi Wenneras e Would si evince che per raggiungere lo stesso giudizio e lo stesso livello di carriere dei colleghi maschi, le donne dovevano essere 2.6 volte più brave.
L’impressione è che la donna sia ritenuta estranea alla elaborazione del sapere scientifico. Estranea perché inadatta, fatta in modo diverso da quello maschile. La scienza non tiene conto di come la donna è, delle sue necessità e dei suoi desideri: considerandosi un’attività che ha bisogno di freddezza, distacco, oggettività, esclude da sé automaticamente la donna perché la giudica emotivamente coinvolta, irrazionale, “calda”. (Vedi Michela Nacci su Hevelius)
La parola “genere” permette di includere nel definire uomini e donne, oltre al differente ruolo nella riproduzione della specie, tutte quelle costruzioni culturali, quei condizionamenti sociali con i quali ogni società ha trasformato e trasforma maschi e femmine biologiche in uomini e donne, con ruoli specifici per ciascuno dei due. Un esempio. Nel suo testo “Has feminism changed science?”, Londa Schiebinger mette in evidenza lo slittamento di alcuni paradigmi scientifici prima e dopo il femminismo. E’ il caso ad esempio della primatologia, dove fino ad un certo punto, l’idea di fondo era che il fattore guida dell’evoluzione delle società dei primati fosse la competizione aggressiva tra maschi dominanti che controllavano i confini del territorio. Solo a partire dagli anni 70 alcune primatologhe sono intervenute sullo stereotipo di genere che portava a considerare le femmine dei primati solo da un punto di vista riproduttivo ma allargando lo sguardo sono emerse pratiche cooperative di gruppi di femmine che si organizzano per una cura estesa dei piccoli, insieme a casi di femmine invece molto aggressive e competitive. Secondo esempio. Trent’anni fa il processo di fecondazione veniva descritto come l’interazione tra spermatozoo attivo ed ovulo passivo. Dalla metafora dello spermatozoo attivo e ovulo passivo, si è poi passati a nuove ipotesi scientifiche sulla fertilizzazione che considerano il ruolo attivo dell’ovulo, fino all’ipotesi di un ovulo che contribuisce più dello spermatozoo alla riproduzione. Oggi nei libri di testo la fecondazione è presentata nel linguaggio delle pari opportunità come “il processo attraverso il quale l’uovo e lo spermatozoo si incontrano e si fondono”. Una metafora efficace trent’anni fa smette di esserlo anche grazie alla trasformazione delle ideologie di genere.
Lidia Santoro per CorriereSannita