ayala2Nell’Aula Magna dell’Università degli Studi “Giustino Fortunato” di Benevento si è svolto il dibattito su “Mafia, politica, apparati deviati, giustizia, relazioni pericolose e occasioni perdute” cui hanno partecipato gli studenti di alcune scuole sannite tra cui l’Aldo Moro e il Fermi di Montesarchio, il Virgilio di Telese. Special guest della manifestazione Giuseppe Ayala, il noto giudice che negli anni Ottanta è stato nel pool antimafia che operava nella procura di Palermo, e successivamente deputato e senatore per quattro legislature.
All’incontro moderato dal prof. Francesco Santocono, Ayala si è presentato citando le parole di un giornalista che le aveva scritte all’indomani delle stragi di mafia del ’92 in cui morirono Falcone e Borsellino “Ayala deve ancora pagare il torto di essere rimasto vivo”. E proprio per pagare quel torto il giudice racconta oggi ai giovani la sua esperienza di vita, raccontando la verità dei fatti avvenuti in quegli anni difficili.
“Negli anni Ottanta – ha detto – Falcone intuì che per ottenere risultati migliori occorreva trattare ogni fascicolo giudiziario che riguardava le morti di mafia, seguendo una sorta di filo rosso, perché esse erano tutti collegate. Il maxi processo che ne seguì e che si concluse con 475 mafiosi alle sbarre, fu un risultato inaspettato per tutti. La conferma delle condanne da parte della Cassazione, avvenuta il 30 gennaio 1992, fu un successo di tutti coloro che erano stati coinvolti nel duro lavoro svolto gli anni precedenti. Ma subito dopo iniziò la guerra della mafia con le istituzioni. ”
“Falcone e Borsellino – ha quindi proseguito – non sono stati due eroi, ma due uomini che tutti dovrebbero incontrare nella vita. L’arrivo di Falcone a Palermo ha dato una svolta alla mia vita così come l’ha data anche la sua partenza.”

C’è ancora tanta emozione in Ayala quando racconta agli studenti il ricordo di quel 23 maggio 1992 (il giorno della strage di Capaci): “Io e Falcone siamo nati lo stesso giorno, il 18 maggio. Il compleanno l’abbiamo sempre festeggiato insieme perché abbiamo praticamente vissuto insieme per molti anni. Nel 1992, invece, ero stato eletto in Parlamento e mi trovavo a Roma. Per questo avevamo festeggiato con qualche giorno di anticipo. Quando ho saputo la notizia sono andato in aeroporto ma stavo per rimanere a terra perché non c’era nessun posto sul volo. Un passeggero che non ho potuto mai ringraziare mi ha ceduto il posto. Arrivato a Palermo sono corso all’ospedale. Giovanni (Falcone, ndr) e la moglie sono morti a causa dell’onda d’urto perché sedevano davanti e di questo non mi darò mai pace. Ero stato io a prendere l’iniziativa di guidare l’auto di scorta. Dopo aveva iniziato anche lui a guidare, occasionalmente, l’auto di scorta. Quando ho saputo dell’attentato, speravo non ci fosse lui alla guida”.

“La mafia è un circuito perverso di potere e denaro con tante occasioni di profitto – ha continuato – per questo occorre ricostruire la legalità cominciando dalle piccole vicende quotidiane, superando quella che ha definito la sindrome del furbo. Un paese avanzato come il nostro non può convivere più con un tasso così alto di illegalità.”

Riguardo alla sua esperienza ha raccontato di aver vissuto letteralmente blindato per 18 anni e 6 mesi, sacrificando la libertà per la verità e la giustizia. “Un’intervista a mio figlio – ha spiegato – mi ha fatto comprendere che non ho perso quegli anni perché lui ha risposto che nulla vale quanto l’orgoglio di essere figlio di Giuseppe Ayala. Per condividere appieno ogni momento vissuto con la mia famiglia mi sono inventato la proibizione della TV in sala da pranzo”.

Il giudice è apparso ‘vero’ e non si è sottratto ai saluti e alle foto con i ragazzi che si sono divertiti anche di fronte alla spontaneità e schiettezza di una magistrato che in più di un’occasione si è lasciato andare alla battuta, senza sminuire la serietà del momento.

(Le foto sono di Graziella Iadanz© – Riproduzione vietata)